La maggior attenzione oggi rivolta all’attività fisica in ogni fascia d’età e le crescenti aspettative di recupero dei pazienti rendono le patologie a carico della cartilagine articolare un problema più che mai attuale. Sfortunatamente l’isolamento del tessuto cartilagineo dalla circolazione sistemica e la sua mancanza di apporto vascolo-nervoso ne determinano la scarsa capacità rigenerativa (1,2), che rende difficile il trattamento di questi difetti i quali, anche quando isolati, rappresentano un importante fattore di rischio di ulteriore danno articolare. Nel tempo sono state proposte molte tecniche per il trattamento cartilagineo, più o meno efficaci (3,4,5,6). Sono anzitutto state sviluppate tecniche che mirano a reclutare cellule staminali dal midollo quali potenziali precursori della cartilagine (7). Trattamenti di questo tipo come abrasione, drilling o microfratture, producono però soprattutto un tessuto di riparazione fibroso a base prevalentemente di collagene tipo I, fibrociti e matrice non organizzata (8), privo dunque delle appropriate caratteristiche biomeccaniche e viscoelastiche che ne consentirebbero la durata a lungo termine (9). Un altro tipo di approccio alla ricostruzione cartilaginea, l’innesto osteocondrale autologo (osteochondral autologous allograft: OAT) proposto da Hangody (10), si è rilevato utile nel ridurre il dolore e migliorare la funzione, ma limitatamente a lesioni di superficie compresa tra 1 e 2,5 cm di dimensione (11). Quest’ultima è inoltre una procedura tecnicamente impegnativa in cui la sede e la taglia del prelievo giocano un ruolo fondamentale. La completa copertura del difetto, la stabilità meccanica dei plugs e la possibilità di ricostruire una buona superficie cartilaginea sono obiettivi difficili da ottenere. Vi è infine un’importante limitazione nella disponibilità di grafts che limita molto l’impiego di questa tecnica. Già da diversi anni più ambiziose procedure rigenerative stanno emergendo come potenziali alternative a queste tecniche, con l’obiettivo di ricreare un tessuto simil-ialino capace di ripristinare una valida superficie articolare (12,13,14). La prima procedura di questo genere ad essere sviluppata è stata l’innesto di condrociti autologhi (ACI), successivamente etichettato come “di prima generazione”. La tecnica consiste nel prelevare condrociti da una zona di non carico dell’articolazione interessata ed innestarli a livello del difetto cartilagineo da trattare in seguito a 4 settimane di coltura cellulare (13). Per mantenere l’innesto in sede, trattandosi di una soluzione cellulare, è prevista la sutura di un lembo periostale prelevato dalla tibia omolaterale a coprire il difetto precedentemente preparato. A dispetto degli incoraggianti risultati clinici e della superficie simil-ialina ottenuta (12,13,14,15), l’originale tecnica ACI doveva far fronte a numerose limitazioni dovute a complessità e morbidità della procedura chirurgica, poiché era necessario un ampio accesso artrotomico, accrescendo il rischio di rigidità e fibrosi articolare (16,17,18). Altri punti critici si sono evidenziati nel mantenere il fenotipo condrocitico durante la coltura cellulare in monostrato. I condrociti in colture cellulari bidimensionali alterano infatti il loro fenotipo e si de-differenziano in fibroblasti, perdendo la loro capacità di produrre collagene tipo II o proteoglicani (12), e non è ancora chiaro se le cellule ritornino ad esprimere il loro fenotipo dopo il trapianto. E’ poi dibattuto se i condrociti in sospensione cellulare liquida si distribuiscano in maniera uniforme all’interno dello spazio tridimensionale del difetto. Infine sono state rilevate complicanze di non secondaria importanza dovute alla possibile ipertrofia del lembo periostale impiegato. Tutti questi motivi hanno spinto principalmente la ricerca allo sviluppo di tecniche alternative, avvalendosi delle nuove tecniche di bioingegneria tissutale, capaci di ovviare a queste problematiche.
Tecniche chirurgiche con scaffold.
Kon E;
2012-01-01
Abstract
La maggior attenzione oggi rivolta all’attività fisica in ogni fascia d’età e le crescenti aspettative di recupero dei pazienti rendono le patologie a carico della cartilagine articolare un problema più che mai attuale. Sfortunatamente l’isolamento del tessuto cartilagineo dalla circolazione sistemica e la sua mancanza di apporto vascolo-nervoso ne determinano la scarsa capacità rigenerativa (1,2), che rende difficile il trattamento di questi difetti i quali, anche quando isolati, rappresentano un importante fattore di rischio di ulteriore danno articolare. Nel tempo sono state proposte molte tecniche per il trattamento cartilagineo, più o meno efficaci (3,4,5,6). Sono anzitutto state sviluppate tecniche che mirano a reclutare cellule staminali dal midollo quali potenziali precursori della cartilagine (7). Trattamenti di questo tipo come abrasione, drilling o microfratture, producono però soprattutto un tessuto di riparazione fibroso a base prevalentemente di collagene tipo I, fibrociti e matrice non organizzata (8), privo dunque delle appropriate caratteristiche biomeccaniche e viscoelastiche che ne consentirebbero la durata a lungo termine (9). Un altro tipo di approccio alla ricostruzione cartilaginea, l’innesto osteocondrale autologo (osteochondral autologous allograft: OAT) proposto da Hangody (10), si è rilevato utile nel ridurre il dolore e migliorare la funzione, ma limitatamente a lesioni di superficie compresa tra 1 e 2,5 cm di dimensione (11). Quest’ultima è inoltre una procedura tecnicamente impegnativa in cui la sede e la taglia del prelievo giocano un ruolo fondamentale. La completa copertura del difetto, la stabilità meccanica dei plugs e la possibilità di ricostruire una buona superficie cartilaginea sono obiettivi difficili da ottenere. Vi è infine un’importante limitazione nella disponibilità di grafts che limita molto l’impiego di questa tecnica. Già da diversi anni più ambiziose procedure rigenerative stanno emergendo come potenziali alternative a queste tecniche, con l’obiettivo di ricreare un tessuto simil-ialino capace di ripristinare una valida superficie articolare (12,13,14). La prima procedura di questo genere ad essere sviluppata è stata l’innesto di condrociti autologhi (ACI), successivamente etichettato come “di prima generazione”. La tecnica consiste nel prelevare condrociti da una zona di non carico dell’articolazione interessata ed innestarli a livello del difetto cartilagineo da trattare in seguito a 4 settimane di coltura cellulare (13). Per mantenere l’innesto in sede, trattandosi di una soluzione cellulare, è prevista la sutura di un lembo periostale prelevato dalla tibia omolaterale a coprire il difetto precedentemente preparato. A dispetto degli incoraggianti risultati clinici e della superficie simil-ialina ottenuta (12,13,14,15), l’originale tecnica ACI doveva far fronte a numerose limitazioni dovute a complessità e morbidità della procedura chirurgica, poiché era necessario un ampio accesso artrotomico, accrescendo il rischio di rigidità e fibrosi articolare (16,17,18). Altri punti critici si sono evidenziati nel mantenere il fenotipo condrocitico durante la coltura cellulare in monostrato. I condrociti in colture cellulari bidimensionali alterano infatti il loro fenotipo e si de-differenziano in fibroblasti, perdendo la loro capacità di produrre collagene tipo II o proteoglicani (12), e non è ancora chiaro se le cellule ritornino ad esprimere il loro fenotipo dopo il trapianto. E’ poi dibattuto se i condrociti in sospensione cellulare liquida si distribuiscano in maniera uniforme all’interno dello spazio tridimensionale del difetto. Infine sono state rilevate complicanze di non secondaria importanza dovute alla possibile ipertrofia del lembo periostale impiegato. Tutti questi motivi hanno spinto principalmente la ricerca allo sviluppo di tecniche alternative, avvalendosi delle nuove tecniche di bioingegneria tissutale, capaci di ovviare a queste problematiche.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.